Dovere di censura
Può un amministratore delegato di un’impresa privata staccare la spina al megafono di chicchessia sulla propria piattaforma social?
È sua prerogativa quella di ampliare o restringere il raggio della libertà di espressione? O invece, la compressione di questo diritto deve avvenire soltanto attraverso la legge?
Sull’argomento regna l’imbarazzo. Perché nei giorni scorsi i big della comunicazione digitale (Twitter, Facebook, eccetera) hanno sospeso l’account di Donald Trump dopo le drammatiche vicende dell’assalto al Congresso per le quali gli si attribuisce una indiretta responsabilità.
L’America ferita si interroga sullo strapotere delle big tech; l’Unione Europea vede scricchiolare l’impianto del Digital Service Act, faticosamente messo in piedi per regolamentare lo spazio digitale con presupposti chiari.
Mi pare ovvio che all’autorità pubblica spetti il compito di intervenire contro l’uso eversivo dei social.
Ma quando essa latita, oppure tarda ad assumersi le proprie responsabilità, è auspicabile l’intervento da parte dei giganti della comunicazione digitale.
Non un diritto, ma un dovere di censura a presidio della democrazia.