
Sabato 20 Feb, 2016
I dati della discordia
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E’ giusto sacrificare il diritto alla riservatezza quando ricorrono circostanze che mettono in pericolo la sicurezza collettiva? Ammetto che sull’argomento sono andato in confusione. Ricapitoliamo. L’iPhone 5 del terrorista Farook - che il 2 dicembre scorso a San Bernardino in California uccise 14 persone e ne ferì 22 prima di essere freddato insieme alla moglie nel conflitto a fuoco con la Polizia - potrebbe contenere dati importanti ai fini investigativi per sgominare cellule dell’estremismo islamico. Per questo motivo un giudice federale ha imposto ad Apple di collaborare con le Autorità e di consentire all’FBI l’accesso ai dati contenuti nello smartphone. Ma quel giudice ha fatto i conti senza l’oste: il CEO del gigante informatico, Tim Cook, ha risposto secco che quei dati se li potranno scordare perché un precedente del genere finirebbe per assestare un colpo mortale alla privacy dei cittadini. Il buon senso mi porta a ritenere che quando - e solo quando - si accerti che alcune informazioni siano inequivocabilmente utili a fronteggiare una minaccia pubblica, il diritto alla privacy debba cedere il passo alla forza maggiore. Il buon senso… Poi ripenso al caso Snowden - emblema dello sgretolamento della credibilità di alcune istituzioni – e ritorno sui miei passi. Si può esser sicuri che dietro la foglia di fico della protezione dei cittadini non si nasconda l’obiettivo di origliare le telefonate o leggere di frodo le mail di ciascuno di noi? Assolutamente no. E allora, forse, ha ragione Tim Cook. Quanto a me, resto con molti dubbi e ben poche certezze.